Qualche giorno fa mi hanno mandato a fare il giudice in uno speech contest. Ogni tanto succede che la compagnia per la quale lavoro mi presenti richieste del genere: dai summer camp ai corsi di cucina, questi negrieri s'inventano di tutto per spillare due quattrini in più alle amministrazioni comunali, che essendo giapponesi hanno una propensione naturale a spendere i loro budget assolutamente alla cazzo di cane1 . A dirla tutta, questo speech contest non era nemmeno uno speech contest vero e proprio, bensì di una gara di dizione nella quale i partecipanti si sfidavano a recitare un testo in lingua inglese2 memorizzzato per l'occasione, cercando di macellare il meno possibile tutti quei fonemi che non possono essere assimilati nell' a-i-u-e-o-ka-ki-ku-ke-ko eccetera della calata locale. A finire al primo posto è stata una ragazzina di tredici o quattordici anni, che a differenza di tutte le sue coetanee è riuscita a recitare un riassunto della lotta emancipatrice di Martin Luther King3 senza cadere nella trappola dei negri che non possono cacare4 dove gli pare sull'autobus. Comunque sia, non avevo intenzione di parlare di questo speech contest, bensì del fatto che a causa degli orari punitivi imposti dagli organizzatori dell'evento non ho avuto modo di pranzare come dio comanda e sono stato costretto a un boccone frugale sul cofano rovente della mia microcar, parcheggiata con grazia di fianco a una risaia in mezzo al nulla.
Il Giappone è un paese fascista, e come tutti i paesi fascisti pone grandissima importanza, tanto economica quanto ideologica, sull'agricoltura e sull'allevamento locali. Due dirette conseguenze di questa direzione politica stanno proprio di fronte a me mentre scarto il mio pranzo a sacco: gli interminabili campi di riso e la necessità produrre i propri salumi direttamente a casa5 , dal momento che l'import di prodotti d'allevamento è vietatissimo e fa piangere l'imperatore.
Io lo dico senza bisogno di falsa modestia: faccio un capocollo che mette tutti a sedere, da quanto è buono. È proprio dolce, tenero e grasso. Madonna com'è grasso: è grasso come un americano grasso, ché la carne giapponese è sempre marezzatissima, splendida, burrosa. Il mio capocollo lo taglio sempre a mano6 , con questo bel coltellone da sashimi in ferro bianco che pare fatto apposta per portar via le falangi. Le lame classiche giapponesi, come i fiori di ciliegio, sono un simbolo della caducità, e prendono la ruggine soltanto a fiatarci sopra7 . Ma che tagli, che pulizia: quante brutte figure l'acciaio di Solingen, gli artigiani di Scarperia. Lo diceva anche Mishima: in questo paese c'è un trionfo di Sole e Acciaio, anche se poi intendeva tutt'altre cose e grande omosessualità. Anche mia moglie, che è sempre un po' scettica di fronte a certi salumi e al modo in cui vengono presentati nelle trattorie toscane, il più delle volte in quantità assolutamente fuori luogo, si contenta sempre gaudentissima di qualche fotogenica fettina di questo pezzo di muscolo, e lo consuma con garbo ed educazione adoprando le sue bacchette a forma di animalini.
Questo capocollo di livello eccezionale io lo metto sempre in dei bei panini di farina francese che prepara Juri, con i semi di zucca e l'uvetta e giustissimi di sale: poi lo incarto bene bene nella carta da forno e me lo porto dietro secondo il bisogno. Oggi, mentre i gamberoni di fiume sguazzavano nella risaia insieme a un papero e a delle tartarughe nascoste, lo ho consumato con piacere, pensando a come fosse un peccato non avere né un posto dove mettersi a sedere, né mezzo grammo di mariuana finissima: con questa sarebbe stato splendido poter girare una replica fumabile del bastone del fulmine di Tanegashima e dedicarsi un'oretta buona alle discussioni sui massimi sistemi.
In compenso, insieme al panino avevo impacchettato una pera di Tottori del peso di quattrocentosettanta grammi, per la quale ho percorso centoquaranta chilometri anda e rianda fino alla catapecchia del mio produttore di preferenza: sugosissima, sbucciata con grande garbo e sucata senza nemmeno passare dal via, la porto ancora nel cuore. Sarebbe stato splendido potersi stendere su un prato e digerire un poco, prendersi un momento per fuggire da tutto e da tutti, dimenticarsi di questa realtà fantozziana: ma in Giappone la camporella è vietata, le panchine non esistono e c'è sempre il pensiero che qualcuno possa prenderci per una persona sospetta8 , per cui mi sono pulito la bazza e sono rientrato in macchina a controllare il pietoso stato del mio portafogli virtuale tramite l'apposita applicazione per telefonino del mio crypto exchange di preferenza.
Da quando vivo in Giappone mi capita spesso di mangiare in macchina. Qui, mangiare camminando è generalmente considerato inaccettabile: i chioschi con il lampredotto non si sa proprio cosa siano, e sucarsi anche solo una bananina sul posto di lavoro al di fuori degli orari comandati verrebbe sicuramente inteso come un gesto di ribellione nei confronti dell'autorità costituita9 . Di solito questi miei spuntini a quattroruote hanno luogo nei tempi morti che corrono tra un lavoro e l'altro, quando mi concedo una visita al supermercato e – comprate le vivande – mi nascondo nell'angolo più lontano del parcheggio con la sola intenzione di raggomitolarmi sul sedile lato passeggero10 a leggere qualcosa su reddit mentre mastico un onigiri al salmone o uno stucchevole daifuku ripieno di pasta di fagioli rossi. D'estate, pur restando fedele ai movimenti principali di questa routine, mi abbandono talvolta a qualche lusso, premiando le mie maratone di superlavoro con occasionali teini freddi e gelati tipo stecco ducale ma giapponesi. In Giappone lo stecco ducale si chiama PARM, e io credo che si chiami così proprio because in Parm there is the Ducal Palas. Storiografia del concetto a parte, ha lo stesso sapore e la stessa consistenza che in Italia, e ogni volta che lo mangio finisco per inzaccherare queste camicine strette che mi tocca mettermi per via e del dress code e della locale passione per il conformismo autoritario. Anche se a vedermi seduto non lo si direbbe, devo ammettere che sono un po' spastico e tendo a smerdarmi facilmente ogniqualvolta se ne presenti l'occasione, per cui mi porto sempre dietro una camicia di ricambio. Il problema, però, è che mi rendo conto di essermi smerdato soltanto una volta tornato a casa. Anzi, a dire il vero di solito se ne rende conto mia moglie, mentre io cammino come uno zombi verso il bagno per spogliarmi della mia uniforme da assicuratore e tornare a vestire i panni del barbaro gaijin11 . Pertanto possiamo dire che la camicia di riserva è davvero soltanto una questione di sicurezza psicologica, e precisamente neppure mia, che ho sempre trovato di buon gusto le camicie padellate di sugo, bensì del mio datore di lavoro, che tanto affanno pone in questo vilissimo tentativo di star dietro alla locale rigidità dei costumi.
Ad ogni modo, proprio ieri sono tornato alla via delle pere di Tottori, questo mercato su strada dei migliori contadini del Mare del Giappone, perché Juri voleva approfittare dell'insolita assenza di uragani e andare un po' da quelle parti a fare il bagno. Ogni volta che ci torno, i vecchini riuniti a vendere questi frutti del peccato sono molto contenti: me ne fanno sempre assaggiare un paio e alla fine mi fanno anche lo sconto. La frutta in Giappone costa delle cifre esorbitanti, per cui lo sconto rappresenta la differenza tra arrivare al ventinove o al trenta del mese: gli spiritosi la smettano subito di ridere, che qui la vita è agra. Ieri però, dopo aver praticamente rubato sette pere a mille yen dal capannello più sgarrupato di tutti, abbiamo tentato la fortuna a un altro di questi chioschi malmessi12 , capitanato da una vecchina tanto brava che nonostante l'età si ricorda sempre di noi e ci fa tante feste, anche se ha le mani che tremano e ogni volta che sbuccia una pera la macella. Nonostante l'iniziale parvenza di normalità, al momento del conto ci siamo resi conto di come, nascosto dietro a certi scatoloni e seduto alla classica scrivania di fòrmica, stesse pronto a intervenire il classico pricemaster, un omino viscido, sulla settantina e particolarmente micragnoso, messo lì dai plutocrati della JA13 per fare in modo che la generosità dei contadini locali non vada a intaccare i ricavi della cooperativa agricola. Questi, una volta riconosciuto il mio accento da migrante, ce lo ha voluto – perdonatemi il candore dell'espressione – fischiare nel culo, e ci ha fatto pagare le stesse sette pere la bellezza di mille e seicento yen14 . Io e Juri, che in fondo siamo gente di buon cuore, abbiamo pagato senza fare una piega, mentre la vecchina si scusava con gli occhi e nascondeva un paio di pere omaggio nel sacchetto della spesa come a dire: perdonatelo, è una merdaccia. La prossima volta però, prima di entrare nel capannello, ci periteremo di fare un sopralluogo al fine di evitare l'incontro con questo avaro maledetto tirchio schifoso infame dio lo fulmini: lui e le sue ridicole pretese da aguzzino.
Ma quello che mi sta a cuore in questo momento è far sapere al mondo che le pere di Tottori sono anche più buone di quanto il loro prezzo e le interminabili ore di tragitto necessarie a raggiungere questo paradiso della frutta possano fare immaginare: mentre mangiavo una shinkansen15 e Juri parlava al telefono con sua madre di una chiave che non riusciamo più a trovare, la scoperta di un profumo di noce nelle carni bianchissime di questo pomo magico mi ha permesso di dimenticare ogni risentimento e ritrattare tutte le maledizioni lanciate al mastro di prezzi e alla sua patologica avidità, rimuovendolo così dalla lista delle persone che devono morire in un incendio al quale lo avevo iscritto nemmeno ventiquattr'ore prima.