Scrivevo a un amico tanto tempo fa che in Giappone, per il lavoro, vige la regola del tre. Questa dice che se prima di mollare duri tre giorni allora sei un ragazzo; se duri tre mesi era una sciocchezza e se duri tre anni vuol dire che non faceva per te. Io i miei tre anni di formazione li ho passati a Okayama, sognando al mattino di schiantarmi in automobile e alla sera, prima di addormentarmi, di non svegliarmi il giorno dopo. Ma non è questo il punto, perché della depressione ormai parla anche Tyson Fury e non me la sento di unirmi al coro. Il punto sono invece le parentesi tricolori intorno alla nuvola di Fantozzi che è stata la mia esperienza di impiegato parastatale nella scuola dell'obbligo, vale a dire il mio servizio a tempo perso da Conne, izakaya italo-giapponese nella lontanissima Miyazaki.
Conne vuol dire vieni qui in dialetto, e siccome siamo in Giappone e c'è poca fantasia di posti che si chiamano Conne ce ne sono almeno settanta. Il Conne che dico io è però l'unica izakaya italo-giapponese a chiamarsi così, e comunque l'unico locale con questo nome nel centro di Miyazaki, almeno per adesso e fondamentalmente entro i limiti di quanto ne posso sapere io. Vado proprio con i piedi di piombo perché il centro di Miyazaki, come ogni centro cittadino giapponese che si rispetti, è essenzialmente un bordello a cielo aperto, pieno di locali di zoccole a pago dei più espliciti oltre che di nomiya1, di sunakku2, di hosutokurabu3, di kyabakura4 e di tutte queste cose qui, stabilimenti il più delle volte nascostissimi, a invito e sotto false premesse, pigiati non si sa come a tutti i piani di certi palazzi di cartongesso e tubi del venti la cui esistenza in questo paese di posapiano e rompicoglioni non so proprio spiegarmi, locali molteplici, imperscrutabili e multiformi e che insomma mi rendono difficile garantire la veridicità delle mie affermazioni in materia. In ogni caso, il Conne dove ho lavorato io è al secondo piano di uno di questi quartieri qui, e a gestirlo è Shuu-san, terzo dei tre leggendari giapponesi di bell'aspetto, che dopo anni di gavetta nella ristorazione a Tokyo e nelle navi da crociera ha deciso di mettersi in proprio e farsi ricco coi propri mezzi senza però, fino ad ora, riuscirci.
Da Conne si mangia come si mangia in tutte le izakaya del Giappone, vale a dire poco per volta, né bene né male, ma comunque a essere onesti niente di speciale e tutta robaccia5. Shuu-san, che ha l'esperienza necessaria a mandare avanti la propria bottega, riesce da solo in una cucina grande quanto una scrivania piccola dell'IKEA a servire una trentina di coperti, e nelle ore più calde del servizio sembra proprio tarantolato. A fine serata, invece, è sempre un po' brillo, e siccome non è più proprio un ragazzo questo basta a farlo sembrare ancora meno sveglio di quanto di fatto da sobrio non sia. Indipendentemente da ogni considerazione brillantometrica resta il fatto che Shuu, anche se il suo sogno a dire il vero era quello di fare il parrucchiere, dei suoi classici è sempre orgolioso: la bottarga fatta in casa, l'agnello sulla brace dello shichirin6, i pinchos di ostriche e i crostini di fegatini con la soia e lo zucchero calibrati sul palato giapponese.
Io, da Shuu-san, ho iniziato a lavorarci dopo aver visto il mio precedente padrone7 prendere a calci il mio senpai per un ordine sbagliato ed essermi convinto del fatto che, in regola con la legge giapponese del tre, quel lavoro in pizzeria non faceva per me ed era con ogni probabilità una sciocchezza.
Le mie mansioni dentro Conne erano semplici: pulire, preparare scodelle di agli e di prezzemoli, miscelare le bevande, servire le pietanze, intrattenere i clienti, lavare i piatti, tenere la roba in diaccio eccetera. Tuttavia, complici le misure (lillipuziane) e le temperature (dantesche) della cucina, una scarsa propensione al servizio e la parlata locale, talvolta ostile, la mia prestazione lavorativa non ha mai superato i livelli dell'irritante e dell'imbarazzante, con Shuu-san che occasionalmente perdeva la bambola di fronte ai miei errori: come quella volta che buttai via due cubetti di ghiaccio8, o quando dimenticai di pesare il bicchiere del Ronco9 prima di servirlo. Ai tempi ricordo di aver sofferto molto per le mie inadempienze e di aver perso una decina di chili per lo stress, con le mani che iniziavano a tremare prima di ogni servizio e il sonno che si faceva sempre più irregolare. Io, va detto, sono fatto così: con i grandi errori non ho nessun problema, anzi, li cavalco con piacere e fino in fondo, come fossero Ritmo mandate sui cerchioni. Sono le piccolezze, invece, che mi tormentano, che mi fanno venire voglia di camminare pieno di droghe a notte fonda nell'oceano e scomparire: sono i famosi denti del caval donato a levarmi il piacere di stare al mondo, quelle piccolezze che qui, inevitabilmente, vengono scrutate fino in fondo e che da sole, al di là di ogni contesto, definiscono il valore dell'intero.
Ad ogni modo, il mio ruolo da Conne era quello che ogni bravo straniero può averci qui in Giappone, vale a dire quello della cultural oddity. Alla fine dei conti non importava nulla a nessuno delle mie doti camerieristiche: era più una questione di carattere circense, con la gente che veniva a vedermi per assicurarsi che fossi vero e poi il giorno dopo, sul posto di lavoro, raccontarlo ai colleghi.
Io, ci tengo a sottolinearlo, non sono esattamente un bel ragazzo. Sono un omone goffo, senza spalle, parecchio peloso e coi labbroni, eppure qui in Giappone le signore si fermano dappertutto, ovunque mi vedano, sia per la strada, nei negozi, al ristorante o finanche alla guida, soltanto per guardarmi e sospirare10. E lo stesso accadeva ogni sera da Conne, con queste scimunite di tutte le età che rimanevano a bocca aperta, incantate, e che ordinavano una cosa per volta soltanto per il piacere di parlarmi un poco di più, per chiedermi e tuuuu quiii cosa ci faaaaaiii e robe del genere affogandosi ogni volta imbarazzate in un abisso di risolini che finivano puntualmente per fare da colonna sonora ai miei velleitari sforzi di lavapiatti.
A volte erano anche gli uomini a cercare di parlarmi, ma per gli uomini i motivi erano di tutt'altro genere e non avevano nulla a che fare con i massaggi alla fregna: i più, casi umani come tutti i casi umani segnati dalla miseria del proprio umorismo, lo facevano per fare gli spiritosi, biascicando gli equivalenti giapponesi dei nostri asganauei e uozzammericanboi. A me non restava altro che sorridere, e fare un cenno come a dire scusi ingegnere, ma qui i piatti non si lavano da sé, che il più delle volte era sufficiente. Qui, d'altra parte, di fronte al lavoro si scappellano tutti.
Il contatto più ravvicinato con uno di questi indigeni lo ho avuto incontrando una sera un certo Aki: come Aki Kaurismäki, il regista più noioso del mondo, ma giapponese. Questo, a quanto pare, è il figlioccio di uno dei politici più importanti del sud del Giappone, e fa la bella vita fingendo di lavorare: col fatto poi che ha studiato alle Hawaii parla pure in inglese, e siccome gli stranieri sono come Italia e Turchia, una faccia una razza, si è probabilmente sentito in dovere sin dal nostro primo incontro di diventare il mio Cicerone e spiegarmi come funziona davvero il Giappone. La prima cosa che sono riuscito a capire dai miei scambi con questo cretino con la maglia dell'Italia stile Bobo Vieri Baci & Abbracci è che il mio giapponese è un giapponese da donnette, per via della nefasta influenza di mia moglie, e che devo subito iniziare a parlare più maschio, a aggiungere dei gran darooouuu alla fine di ogni frase e a accompagnare i miei gesti con dei sufficienti tsk tsk o dei poderosi ssshaaaaaaaaaaa!!!!!11. Secondo lui devo anche entrare nello show business, perché dedicarmi al lavoro salariato o all'insegnamento delle lingue è tempo sprecato12, ma soprattutto devo andare con lui a bere in certi locali perché, dice, lui mi porta dove c'è la figa. Lui è sposato, ci ha 3 figli e cinquant'anni suonati, ma lo fa per me.
A bere con Aki non ci sono andato, perché secondo me a furia di parlare di fregna quest'ultima gli è venuta a noia e ora ci ha voglia di robe più esotiche, come il pregiato pupparuolo svizzero. Sono però andato a bere al bar del fratello, Henry's Africa13, insieme a Shuu-san e a un suo amico un po' ritardato una sera in cui il business era fiacco e avevamo tutti voglia di chiudere presto.
Il fratello di Aki, siccome è più giovane e per un discorso di matematica piuttosto complesso e che non vado ora ad approfondire non è il primogenito, è costretto sua malavoglia a lavorare. Da padrone, che c'entra, ma sempre a lavorare, e perciò scodella dei cocktail che nemmeno Tom Cruise nel film omonimo alla folla di ubriachi che lo circonda educatamente alla sua postazione e che lo sfinisce ogni giorno al ritmo pressante del karaoke. Quest'uomo, che come già avete senz'altro letto nelle note si chiama Taro, o qualcosa del genere, assomiglia moltissimo a mio zio Giovanni, anche se quest'ultimo non è asiatico bensì della vallata. Mio zio Giovanni, che è uno zio importato e che pertanto non ha nulla a che vedere con il sangue infame dei miei parenti storpi fascisti ladri e psicopatici, è un personaggio che a tutti questi cacariso gli fa il riportino leccato, se mi si permette.
A quanto mi dicono, questo mio zio Giovanni14 non ha mai lavorato davvero, e pur proveniendo da una famiglia perfettamente ordinaria quanto a reddito e condizione ha sempre mantenuto uno stile di vita da nababbo. Case coi cavalli, viaggi in aeroplano, magline del coccodrillo e tutta quella roba lì. Io da piccino credevo che lavorasse nel tessile, ma a quanto pare era tutta una messa in scena: a garantirgli la bella vita era una dote naturale, quella dello scroccone.
Io di Giovanni ho solo buoni ricordi, a differenza di tutti gli altri miei parenti che affogherei senza rimorsi uno ad uno nel lago di Suviana, e credo che fosse proprio il suo carattere amabile e naturale a permettergli di vivere a spese degli altri. Episodi come quelli dell'operazione chirurgica in Francia a babbo morto e del viaggio di lavoro ad Atlanta col cappotto di cammello varrebbero senz'altro la pena di essere raccontati, ma un certo rispetto della privacy mi impone di lasciarvi a bocca asciutta e con l'onere psicologico di fantasticare per conto vostro.
In ogni caso, dal fratello di Aki ricordo di aver bevuto almeno tre o quattro mugishochuu con tanto ghiaccio, e di essere uscito dal locale con la gola secca e una grande arsura. Mentre ci incamminavamo verso casa, Shuu-san mi pregava di non dire nulla alla moglie, di questa nostra scappatella, e io lo rassicuravo in italiano dicendogli Shu vai tranquillo m'importa una sega porcamadonna dai, e lui faceva segno d'intendere.
Ci ho lavorato di nuovo, da Shuu-san, appena tornato a Miyazaki, ma per oggi basta così.