In Giappone, proprio come in Italia e in tutto il resto del mondo, la gente non si fida degli stranieri, che di solito – questo va detto per amor di verità – non si lavano, parlano male, e dal punto di vista economico sono sempre alla canna del gas. Chiunque la natura abbia dotato anche soltanto di un pizzico di buon senso sa che quando non si ha nulla da perdere è difficile esser fedeli ai ricatti del commercio e della società: è quindi prassi comune guardarsi bene dal mettere i propri affari in mano a degli immigrati, coscienti del rischio che questi, presi dal panico e dalla disperazione caratteristici della loro condizione sociopolitica, non mantengano le promesse o combinino chissà quale marchella. Per noi strangers in a strange land, trovare qualcuno che ci affitti una casa – con tutte le responsabilità e i doveri civici che un onere del genere comporta – può quindi risultare più complesso di quanto si possa immaginare, e ciò a meno che – ovviamente – non si voglia spendere più del necessario per stabilirsi in certe residenze per forestieri che immigrati americani di vecchia data e con l'occhio lungo mettono annualmente a disposizione per i loro ricchi1 compatrioti in cerca di un alloggio temporaneo. Va dunque da sé che io, che non sono americano, sono magro dalla fame e ho pure le pezze al culo, sono stato sin dal primo istante visto con sfiducia dal mercato immobiliare locale, e i miei primi giorni a Okayama in attesa di una sistemazione consona li ho passati a tirare la cinghia in un capsule hotel.
I capsule hotel sono proprio come ce li immaginiamo in Occidente, ma peggio. Al prezzo2 di una mezza pensione a due stelle giapponesi veniamo sistemati in un cubicolo attrezzato di tutto il necessario: coperta, materasso e cuscino, oltre all'immancabile set dello stachanovista notturno, vale a dire luce al neon per leggere gli appunti del giorno e presa della corrente per stilare le relazioni al computer. Il bagno in comune, l'armadietto per gli effetti personali e lo scompartimento per la valigia sono ovviamente compresi nel servizio. A chi ancora insistesse nel crogiolarsi in certe irritanti fantasie di un Giappone all'avanguardia e leader nel design, ricordo che quella nipponica è una repubblica fondata sull'agricoltura e le schiene a pezzi, e gli arredi dei capsule hotel risalgono al massimo ai primi anni ottanta: fòrmica e plastiche ingiallite dominano imperturbate l'estetica di questi cubicoli per giovani yuppies.
Anche se vedo già molti storcere il naso di fronte all'idea di una sistemazione del genere, io in particolare non sono esattamente un tipo da lamentele, e nonostante il clash of the proporshoneishons – come dicono negli Stati Uniti – tra i miei due metri di statura e il metro e ottanta di profondità della mia alcova a noleggio, nei dieci giorni che ho trascorso al Riverside Hotel me la sono cavata benissimo: col ferro portato da casa3 ho stirato le mie camicie ogni mattina e senza svegliare nessuno; nonostante la sveglia alle quattro e cinquanta sono riuscito a dormire almeno cinque o sei ore al dì e complessivamente, in tutto l'arco di questa avventura, ho bestemmiato la madonna meno di seicentosessantasei volte, riuscendo così a garantirmi un aldilà tutto sommato sereno fuori dai gironi più caldi dell'inferno. Vale poi senz'altro notare come il personale della struttura, in piena tradizione giapponese, sia stato sempre utile e cordialissimo: primi inter pares l'omino della reception, che mi ha detto goyukkuridooooozo4 ogni volta che gli sono passato di fronte, e la responsabile di sala5 , che mi ha dato dei coupon per lo sconto sul caffé da utilizzare nel più vicino Family Mart.
Tuttavia, al fine di mantenere intatto lo spirito di inchiesta che anima le pagine di queste recensioni, non posso esimermi dall'ammettere come – dopo una settimana di levatacce, pranzi frugali e ristrettezze generali – anche nel mio animo arido e stachanovista avesse preso a germogliare il seme del desiderio: travestito da senso di giustizia e declinato come aspirazione ad una ricompensa, ebbe rapidamente a trasformarsi in una corviniana pianticella e a fiorire nella sconsiderata idea di concedermi una cena come si deve e senza badare a spese.
È così che per la prima volta feci tappa da Hachimonji.
Hachimonji è un ristorante specializzato in kaiseki6 , situato a due passi dalla stazione e a un tiro di schioppo dal mio capsule hotel. È un locale molto piccolo, con un bancone sufficiente ad accomodare non più di mezza dozzina d'ospiti e una saletta tradizionale con tatami e zabuton7 , capace di accogliere gruppi di amici o colleghi di lavoro per un massimo di quattro o cinque persone. Ogni giorno la sua presenza passa inosservata agli occhi di quanti, indigeni o turisti, si trovano per un motivo o per un altro a passeggiare nei paraggi: distratti dalla grazia del canale che scorre per la via principale della città e dalla stereotipica bellezza dei ciliegi in fiore, questi individui dal gusto ordinario vivono e visitano una Okayama inutile e triste, mutilata del suo clitoride culinario. A cogliere la mia attenzione mentre cercavo di orientarmi tra le varie izakaya del centro cittadino fu la vista del menu del giorno, un foglio di washi8 con due scarabocchi vergati a penna e assolutamente incomprensibili, che a tutta prima pareva messo lì per spaventare i possibili avventori: incuriosito dalla situazione e deciso a saperne di più, feci appena in tempo ad avvicinarmi all'entrata che
bam! Shazam!
le spire seduttrici di un incantesimo antichissimo mi avvolsero ineludibili, e subito mi tornarono in mente certe parole di mia moglie, distanti e come in sogno:
... Girolamo... il menu scritto a mano... la sobrietà delle apparenze... fai attenzione...
ma mentre riflettevo sul loro significato la più dolce delle signore in kimono mi stava già levando il cappotto per indirizzarmi verso un posto al bancone, dove lo chef – un omino asciutto e tanto sorridente quanto indaffarato, tutt'uno nei movimenti con le sue pentole e suoi coltelli – mi chiedeva cosa avessi in mente per la serata. Fatale il destino aveva già deciso per me: omakase de, faccia lei, mi fido. E come dal nulla ecco palesarsi di fronte a me un frammento irregolare, simile a un gioiello, di un pomodoro magnifico, statuario nella sua dignità e fermato al centro di un piatto ornato di verdure stagionali scottate nel dashi: il mitologico fukutomato, grande protagonista dell'entree del giorno. A seguire, una selezione finissima di sashimi, servita in una foresta di alghe, condimenti e cubetti di ghiaccio; un umilissimo agedashi tofu, fritto e affogato nel più semplice dei brodi; poi ostriche di Tottori, karaage di okoze9 e un assaggio di quello che senz'altro è il miglior sushi del Chuugoku. A chiudere il servizio un omisoshiru insuperabile per delicatezza e – al fine di soddisfare i miei bisogni più infantili – un boccone dolce da intenditori: due chicchi contati di una trasgressiva tenpura della pregiatissima uva moscato di Okayama. Terminato il pasto, ancora sospeso nel settimo cielo della gastronomia mondiale, mi rendo conto di non essere più solo: la gentilissima signora del cappotto è accanto a me e tiene in mano un ritaglio di washi, anch'esso – come il menu – scarabocchiato a penna. Questa volta però il contenuto è leggibilissimo: una rapida occhiata è sufficiente a capire che si tratta di un potentissimo controincantesimo. Ecco da capo che mi ritrovo sull'uscio, imbacuccato, a salutare tutti con dei gran sorrisi: e sopraffatto dalla magia mi sento leggero, leggero...
Cerco di tornare da Hachimonji almeno una volta all'anno, sia per offrire un'accoglienza adeguata a chi nonostante le distanze facesse lo sforzo di venire a trovarmi, oppure per celebrare la pazienza di mia moglie, che continua a starmi a fianco nonostante i miei modi da barbaro e le mie opinioni impopolari. Ogni volta, indipendentemente dalle circostanze, trovo al bancone ad aspettarmi lo stesso affezionato cliente di Niigata, un salaryman sulla cinquantina con le guance rubizze: godendo di buon cuore l'uno della compagnia dell'altro finiamo sempre a parlare di com'è buono il sake dalle sue parti, ci lasciamo prendere dalla nostalgia di casa e decidiamo infine di ricompensarci a vicenda con dei grossi nodi d'alcool di prima scelta per aver sopportato entrambi così a lungo i dolori dettati dalla distanza e dallo sradicamento. Con l'avvicinarsi delle ultime portate, il discorso vira poi invariabimente sull'esistenza di un certo localino dove questo pendolare delle lunghe distanze vorrebbe puntualmente portare me e il mio accompagnatore di turno: un posto dove si canta, mi dice, si beve, e ci si diverte tanto, ma che lo chef – che mentre taglia, sbuccia, prepara e cuoce ascolta tutto – mi fa sempre cenno perentorio di evitare. Io, che come ho già detto mi fido dello chef più che dei pronostici di Maurizio Mosca, invento allora ogni volta delle scuse tutto sommato abbastanza credibili come ad esempio no vede sono venuto in bicicletta o anche sa, mia moglie... e con grande naturalezza la discussione torna sui temi di sempre: lavoro, società, differenze culturali – ma soprattutto sake, perché l'acqua di Niigata è proprio tutta un'altra cosa.
Hachimonji è l'unico ristorante vero e proprio dove Juri ha accettato di venire con me per una seconda uscita10 . Il suo modo di pensare è molto semplice: viviamo una volta soltanto, e non ha senso ripetere come in un circolo vizioso le medesime esperienze conosciute nel passato. Juri è senza dubbio il mio antidoto contro la quiete e la stagnazione, lo spirito della curiosità reincarnato in un Ouroboros di appena un metro e mezzo. In qualche modo però l'incantesimo di Hachimonji deve avere avuto la meglio anche su di lei, tanto che l'altra notte la sentivo farfugliare in sogno: fukutomato... hyakumanen11 ...