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Madonne A Caso

Hourakumanju

In questi mesi di auto-isolamento io e Juri abbiamo smesso di vedere i pur pochi conoscenti che abbiamo e di concederci le nostre scappatelle ai ristoranti. Ma mentre l'isolamento dalla gente e dalle loro chiacchiere non mi pesa affatto1, non poter andare a sucare un ramen ogni tanto nelle bettole più lorde di Miyazaki mi amareggia e non poco, anche perché in questi giorni di grande studio e grande lavoro eremitico l'occasionale momento di ristoro dai fornelli equivarrebbe all'incontro del pellegrino con la tanto agognata oasi delle palme. Né io né mia moglie siamo tuttavia gente del tipo che si fa abbattere, e per questo motivo abbiamo corretto l'orario di certi nostri itinerari ciclistici per dedicarci all'esplorazione di certe pasticcerie e produttori di snèk che vendono i loro prodotti appena sfornati e pronti all'asporto. Ed è a questo proposito che oggi vorrei parlare di Hourakumanju, storico produttore di imagawayaki situato nel centro di Miyazaki, proprio a due passi dalle zoccole a pago e dai posti dove si beve a pago e si paga da bere alle zoccole a pago.

Dolcezza, primavera di bellezza

Prima di sposarmi con Juri e fare esperienza della quotidianità giapponese, ricordo come lei spesso storcesse la bocca di fronte ai dolci occidentali, lasciandomi intendere come questi fossero troppo carichi di zucchero e come ai giapponesi, e dunque per analogia anche a lei, certe cose non piacessero2. A smontare la falsità di questa affermazione, il cui reale significato soltanto oggi posso capire3, fu la mia prima visita a Miyazaki4, della quale gli unici ricordi che ho sono appunto un ragno grosso come un pugno pronto ad aspettarmi nella vasca da bagno e questo negozino piccino, stipato, scomodo, dove servivano certe cialde ripiene di pasta di fagioli rossi5 dolci assassinate e buone da levarti da terra.

Questo posto è appunto Hourakumanju, e nella vetrina che dà sulla strada lavorano sempre tre o quattro persone indaffarate a versare romaioli di pastella nelle forme roventi degli imagawayaki, a riempirli di pasta di fagioli, e poi a finirne la cottura in un secondo strato6 della solita pastella a base d'uovo, farina e zucchero. A tutte le ore, in tutti i momenti, questi operosi giapponesini girano e piastrano, girano e piastrano, e nonostante la bontà di queste bombe al saccarosio non capisco quante ne riescano a vendere, considerato che mentre loro lavorano anche il resto del Giappone lavora, come sempre, e insomma loro di queste cialde pare che ne sfornino diverse centinaia di migliaia al giorno, e allora io mi chiedo chi, oltre a me, appunto, e alle vecchine, che comunque è vero sono tantissime ma siamo pur sempre in aperta campagna, queste cialde insomma di fatto le compri.

Io, va detto, mi faccio spesso le domande sbagliate, perché in tutta onestà non capisco né il mondo né la gente, per cui è ben possibile che ai vostri occhi di bisness menager la risposta appaia immediata. Ma in ogni caso, e metafisiche a parte, per chi volesse aiutare questo negozino a liberarsi del proprio stòck7 di cialdine basti sapere che vendono solo quelle8 e che una costa cento yen, due costano duecento yen, tre costano trecento yen e così via fino a quaranta9, come testimonia una tabella a righe gialle e verdi esposta a fianco del registratore di cassa e volta ad aiutare quanti, magari in difficoltà di carattere logico-matematico a causa della fame e/o del superlavoro, temessero una sopresa nel conto, come d'altra parte spesso succede nell'ambito della ristorazione e del sistema dei parcheggi giapponesi10. Io mi sento di consigliarvele, e di mangiarle da qualche parte lontano dalle musichine infernali e dal frazio di griglia che emanano delle vie del centro.

La pinetina

Dal momento che in questi tempi di pandemia mangiare in loco non è proprio cosa, io e Juri, coi nostri quattro imagawayaki11, inforchiamo le nostre bici da corsa e sfrecciamo verso il mare, che alla fine è sempre vicino. Appena fuori dalle vie principali del centro l'aria perde ogni connotazione di civiltà, e passando per una ciclabile sempre deserta e che si estende fino alla costa e al lungomare ci imbuchiamo nella pineta artificiale che protegge la città dalle onde anomale che la aspettano al varco, e io, che pure di natura sono restìo al buonumore e alla juadevivr sono costretto a dire che mi sento piuttosto bene.

C'è sempre un profumo incredibile in mezzo a questi alberi che coprono la vista del cielo, al manto rossastro dal quale si levano infiniti, e la bici scorre quasi da sé, senza nessuno intorno e col rumore soltanto del mare a un tiro di fionda. Ogni tanto la sagoma di qualche resort ormai in disuso sbuca sgarrupata nel verde delle frasche, e poi nulla, fino ai campi da golf ed ai colpi di mazza dei forzati locali, impiegati in veste temporanea e fuori dal regolare orario di lavoro nei loro ruoli di sbagliabuche e guardapalline, mentre il capufficio li consiglia e li guida nel loro percorso di crescita sportiva.

Superata la pineta vera e propria, se abbiamo voglia ci spingiamo un po' più avanti, fino a una spiaggia lunga e abbandonata, dove la forza del mare è arrestata da certe strutture in cemento che mi fanno sentire perduto sul pianeta delle scimmie. A quel punto lasciamo lì le bici e andiamo a mettere i piedi un po' a guazzo nell'acqua.

Le cialde nel frattempo si sono raffreddate, e forse sono un po' gunyo gunyo12, come dice Juri, per cui le rimettiamo nello zaino e ci rimettiamo in sella verso casa. Lì le mangeremo rigenerate dall'effetto pari pari13 garantito loro da un paio di minuti passati nello sfornatutto.


1: Ho imparato a sopravvivere senza Ciccio Mannori che di prima mattina mi faceva vedere i meme con gli omini di Star Trek che scivolano e bestemmiano la madonna e all'imbrunire mi passava una canna già girata: la perdita di tre gonzi americani e qualche giapponese con la smania dell'europeismo sicuramente non mi vedrà provato.
2: Specialmente agli uomini, che spesso citano tra i loro cibi preferiti certe verdure amarissime e/o viscidissime, oppure certi preparati commestibili unicamente se accompagnati da fiumi di birra, come le uova di tara in salamoia piccante e certi pesci muffiti che non vado nemmeno a spiegare. Ma va detto che agli uomini giapponesi, come a tanta altra gente che non capisce un cazzo, non garba nemmeno la figa.
3: Se avesse potuto esprimersi in maniera chiara e distinta, utilizzando un lessico regolato sulle cose e non sulle circostanze, avrebbe detto sono dolci del cazzo fatti alla cazzo.
4: Millanta anni fa, quando ancora non ero sposato e credevo in certi concetti occidentali come quelli della privacy e delle libertà individuali.
5: O bianchi, che a dire il vero sono anche meglio.
6: Il lato B.
7: Ahia.
8: Non proprio: vendono pure delle granite al tè verde, anche queste ripiene di crema di fagioli rossi e dolci da segare il fiato, che sì, raccomando, ma che insomma non contano ai fini dell'esposizione.
9: Dopo quaranta scatta la telefonata al Ministero per la Salute.
10: I centri cittadini giapponesi, sempre stipatissimi, hanno di regola almeno un parcheggio privato ogni sette negozi di zoccole da bere, quindi un'infinità, e ciascuno di questi parcheggi reclamizza i propri prezzi su dei tabelloni nascostissimi e con delle modalità espositive che al confronto le condizioni di utilizzo di certi prestatori di servizi telefonici italiani sono un inno alla sincerità e alla chiarezza del discorso.
11: Uno per colore, a testa.
12: Mollicce.
13: Di soave croccantezza.