La mia vita lavorativa in Giappone è cominciata tre giorni dopo lo sbarco da immigrato. Nonostante una costola rotta e la disponibilità di fondi sufficienti a passare un primo periodo di ambientamento senza bisogno di preoccuparmi dello stipendio, il senso di colpa che sin da bambino mi accompagna per il semplice fatto di stare al mondo – mentre qualcuno, da qualche parte, si sta sacrificando per me1 – mi ha spinto a trovare immediatamente un'impiego quanto più possibile miserabile e gravoso: nello specifico, il cameriere.
Il cameriere è proprio un mestiere di merda2 . Io non lo augurerei mai a nessuno, e in special modo a chi avesse la sfortuna di trovarsi in Giappone: qui, ad aggiungere alla miseria di un lavoro già infame di per sé, c'è tutta una passione per il servizio, per la manfrina e soprattutto per lo sgobbare in genere, che riesce a trasformare anche il più semplice dei mestieri in un esercizio di forma e in una gigantesca rottura di coglioni. Professioni come questa sono una vera e propria punizione divina per chi come me, oltre ad avere in termini generalissimi qualche problema con la destrezza, riconoscesse nella propria natura il carattere del barbaro e del ribelle rochenrol, vale a dire intuisse nella propria individualità una tempra assolutamente irregolare, indomitabile e fermamente inadeguabile al ruolo del servitore. Al mio modo di sentire – e a quello di chi mi somiglia – una discrepanza del genere tra indole e mansioni, purtroppo tipica della nobiltà dello spirito, rende infatti le medesime sofferenze lavorative incommensurabilmente più penose rispetto a quanto non lo possano essere per l'uomo qualunque, che con la sua esistenza irrisoria e la sua naturale disposizione all'essere comandato a bacchetta riesce a passare senza neppure battere ciglio attraverso la serie infinita delle insensate ordalie che inspiegabilmente e da secoli segnano il perpetrarsi di questa cerimonia pagana – il lavoro – in ogni sua forma, specialmente in quella assolutamente retrograda e inutile del servizio a tavola e del portare i piatti.
Ricordo come fossero ieri i miei primi giorni a Miyazaki, quando finito il turno al ristorante, spogliato della camicia di servizio e salito in sella alla mia Peugeot color crema coi freni a doppia leva, il mio unico pensiero era trovare da mangiare. Nonostante i turni estenuanti, passati sempre vestitissimo, a trentasei gradi fissi, senza neppure il pensiero di una pausa fosse anche solo per un attimo giusto al volo per pisciare, a me di tutte quelle pizze, spaghetti, arrostini e bistecchine che pure mi vedevo passare di fronte non toccava mai nemmeno l'odore. In sei mesi di lavoro quella banda di strozzini dei miei padroni mi ha fatto assaggiare una pizza avanzata fredda (per raccontarla ai clienti) e un quarto di cocomero giallo (perché non lo voleva nessuno e altrimenti era da buttare3 ): quanto al resto, acqua del rubinetto e pedalare. Per me, abituato a nutrirmi ogni tre ore come i figlioli ancora in svezzamento, questo regime si è rapidamente tradotto nella perdita di nove dei novantadue chili di cristiano che m'ero portato dietro4 e nella scoperta del motivo per il quale i giapponesi dei cartoni animati mangiano col risucchio e sempre tenendo il piatto vicino alla bocca, quasi davvero non ci fosse un domani: è molto semplice, hanno fame.
Per chi ancora insistesse nell'abbandonarsi alle fantasie di un Giappone benestante e iper- tecnologico, basti sapere che qui, nel sogno bagnato di Andrea Mengacci, il rapporto tra salari e costo della vita è tutto a favore del ceto medio abbiente, con i morti di fame che lavorano turni massacranti per l'equivalente di due croste di formaggio e tre sputi in bocca5 . Per chi non ci credesse, cito testualmente gli ultimi report del ministero dell'economia, secondo i quali questi disgraziati dei lavori part time6 portano a casa in una giornata di lavoro l'equivalente di una zangola di tofu e una borraccia di tè freddo7 e senza fiatare se li fanno bastare, contribuendo così allo stato generale della salute nazionale e tenendo stabile ai minimi assoluti l'indice morchiametrico di obesità nazionale. Io però – evidentemente – non sono giapponese, e nonosante tutti gli sforzi del mondo il mio fabbisogno calorico non vuole saperne di scendere sotto un certo ammontare dettato inequivocabilmente a) dalla mia mole corporea b) dallo stato di costante frenesia dello spirito nel quale pure mi trovo gettato da tempo immemore. Pertanto, alla ricerca di un modo per soddisfare le necessità dettate dall'importanza della mia natura in tutte le sue forme, ho imparato ad amare quello che oggi è uno dei miei ristoranti preferiti in tutto il Giappone: Katsuya.
Katsuya non è un ristorante vero e proprio – anche perché mangiare in un ristorante con uno stipendio da cameriere non è cosa di questo mondo – bensì una catena di fast-food specializzata in cotolette fritte di maiale. Di qui il nome: katsu come katsu retsu8 , vale a dire cotoletta, e ya come negozio. Il negozio della cotoletta, la casa del fritto. L'ambiente è sempre lo stesso ovunque si vada, con i tavoli in laminato finto legno e le poltroncine rosso sangue di maiale. La musica, pure, è sempre la stessa: una collezione di hit giapponesi riprodotte in formato MIDI e pensate per ridurre il più possibile la permanenza dei clienti una volta terminate le consumazioni. Anche il menu è sempre lo stesso: cotolette fritte, gamberi fritti9 e pollo fritto10 , accompagnati immancabilmente da cavolo tagliato fino, riso, mostarda inglese e una versione giapponese della salsa worcester cui tutti fanno riferimento semplicemente come soosu. Tutto questo bendiddio – con il teino freddo e gli tsukemono11 gratis (!!11!1!) – a partire da quattrocentosessantotto yen, che dalla seconda visita diventano trecentosessantotto grazie al bollino fedeltà. Trecentosessantotto yen sono pochi anche per i morti di fame, e non sono neppure vagamente rapportabili alla decenza del fritto proposto, alla normalità del riso servito, alla sapidità artificiale ma punto deludente dell'occasionale tonjiru12 , assoluto toccasana per il rigore delle giornate fredde. Katsuya, nonostante un'offerta prezzi assolutamente imbarazzante e che si riflette senz'altro sui salari da fame dei suoi impiegati, sulla dubbia origine delle carni proposte e sull'assoluta mancanza di carattere dell'ambiente, è stato per me, a lungo, un luogo fantastico, una meta ambitissima: le cene a tarda notte, da solo, a locale semivuoto; la momentanea fuga da un Giappone altrimenti ostile attraverso la lussuria del grasso delle sue cotolette caldissime; la bici legata allo steccato anche se non c'è bisogno, stremato dal tragitto e con la testa ancora piena di ordini e consumazioni, solo per rendersi conto all'improvviso di essere finalmente altrove; respirare di sollievo nel buio il salmastro delle sere più calde. Non che Katsuya fosse l'unico posto in grado di offrirmi un rifugio dalla miseria di quei giorni: anche in Giappone infatti le bettole e i locali sgozzi sono parte imprescindibile della biosfera notturna, e si prendono egregiamente carico del medesimo ruolo che sono deputati ad assolvere nel resto del mondo. Katsuya però, in tutta Miyazaki, era il solo che mi potessi permettere ogni volta che ne avessi voglia, senza perdermi né in calcoli né in grossi pensieri.
Oggi, come diceva Alberto Tomba, non sono più carameriere, ma nonostante il passare degli anni Katsuya rimane per me uno dei migliori ristoranti di tutto il Giappone. Anche qui a Okayama, dove faccio l'insegnante e il mondo della cucina vera e propria – per quanto di bassissima qualità – è finalmente alla mia portata, cerco sempre di tornarci appena posso: ne ho uno vicino casa, e ogni volta che ci vado le ragazze che ci lavorano, delle giovani studenti di solito non particolarmente belle, mi guardano rapite e cariche d'interesse. Nonostante l'educazione severissima – un lavoro pedagogico durato quasi vent'anni volto esclusivamente a soffocarne l'espressività e la naturalezza – paiono per qualche istante dimenticarsi di tutto e si lasciano andare dei sorrisi bellissimi, a delle espressioni quasi fanciullesche di desiderio, così immediate e spontanee da non riuscire a trattenerle nonostante lo sforzo: in questo paese fondato sul sacrificio e sulle ristrettezze, vederle sgusciar via per un istante da quel medesimo imbarazzo che le forma come individui vale per me più di mille baci e di mille carezze. Certo: qui in Giappone è facilissimo passare per dei bagnafiche, dal momento che gli indigeni – oltre che noiosi – sono brutti come il colera e anche quei gaijin che pure dovrebbero portare una ventata di freschezza nel panorama del desiderio indigeno sono perlopiù dei disagiati e degli scandalidomini13 . Ma per quanto mi riguarda essere al corrente di questo bias della percezione non leva nulla all quantum di piacere che posso cavare da questa esperienza: prima di tutto perché a certe reazioni non sono proprio abituato, avendo passato buona parte della mia gioventù illudendomi miseramente d'essere più intelligente che bello; seconda di poi perché proprio a causa di una certa insicurezza e di un grande bisogno d'essere amato sono docile d'indole e facile preda di ogni lusinga. Sarà quindi semplice capire, al di là di ogni considerazione di stampo culturale, come e perché queste triviali manifestazioni amorose siano per me più che sufficienti a sentirmi felice, foss'anche soltanto per l'orgoglio immaturo che provo nel portare un po' di gioia e qualche lagrima phyae a queste care ragazzotte che il resto del Giappone, altrimenti, vorrebbe morte di noia e secche di fica: tristi, punite, e messe a soffrire al di là di un bancone.
Ogni volta che mi viene voglia di andare da Katsuya Juri è contenta di venirci con me14 , e più che mai quando è di ritorno dai suoi allenamenti: prima di tutto perché dopo la palestra o il nuoto il fritto è la morte sua, e poi perché con dei prezzi così bassi può azzardarsi ogni volta a mangiare qualcosa di nuovo15 : il che – vista la sua natura eclettica e sperimentatrice – la rende senz'altro molto felice. Una volta seduti, nei brevissimi istanti che non dedica a mangiare o a prendermi in giro perché le donne mi guardano e fanno i gridolini16 (è solo curiosità – mi dice – tu sei al massimo un sei su dieci) si meraviglia anche lei di come il riso sia francamente accettabile e di come tutto quanto sia assolutamente adeguato nonostante le tariffe da mensa dei poveri.
Come ogni amante che si rispetti, anche io a più riprese ho provato a tradire Katsuya – e i suoi katsu – alla ricerca di qualcosa di più raffinato: stabilimenti specializzati nel porco giapponese allevato a sole pesche; ristoranti con la friggitrice a vista, due vasche in rame e pulitissima; laboratori sperimentali dove innovatori nel campo della cotoletta si lanciano in progetti avveniristici come quelli della millefoglie di manzo o delle karafuru konbi. Eppure, nonostante l'ovvio dislivello in termini di qualità, la manifesta superiorità delle preparazioni, l'incomparabile qualità dell'ambiente e l'inevitabile fascino della novità offerti da questi specialisti della braciolina fritta, ogni volta che la natura torna a farsi viva e lo stomaco sofferente riprende a borbottare, io non mi faccio domande e mi fermo da Katsuya. I nomi degli altri locali svaniscono dai miei ricordi e si rivelano per quello che sono: delle mere distrazioni, dei momenti di confusione e di sbando nei quali una parte di me, la più corrotta e la più viziata, crede di non appartenere più a quello strato sociale miserabile e bistrattato del quale invece so perfettamente di essere lo sciagurato portabandiera, il grande stato dei vagabondi e dei derelitti, al quale nessuno pare voler appartenere, del quale di fatto nessuno vuole parlare, ma che pure costituisce senza ombra di dubbio la parte più significativa della clientela di Katsuya e delle bettole come Katsuya. Queste deviazioni, questi tentativi di fuga dell'autocoscienza dalla coscienza di sé, altro non sono che un momento strettamente negativo della lotta di classe: un movimento che mi riporta all'unica verità di fondo, all'unica cosa che conta e che pure la confusione di quella chiacchiera culturale che tanto ho amato in gioventù mi ha impedito di riconoscere per tempo, prima della fuga dal mondo e dell'arrivo della canizie. Sto parlando della verità della fame, la cui dimenticanza mi ha costretto a errori e peregrinazioni senza fine, portandomi da ultimo, dopo avermi a modo proprio annichilito, a cercare ristoro in questo arcipelago, così diverso dal mondo lontano – con le sue leggi, le sue regole, la sua gente – eppure in ogni cosa così piano, così normale.