Di recente, quella stessa ansia che da anni mi mangia vivo e mi leva ogni possibilità di trarre anche il minimo piacere dall'esistenza e dal quotidiano ha cominciato a manifestarsi in maniera più fastidiosa del solito, e cioè sotto forma di una stretta ai polmoni che mi rende penoso anche soltanto respirare. Da persona pragmatica che sono, ho dunque pensato che il miglior modo per sciogliere questo nodo in gola sarebbe stato senz'ombra di dubbio aumentare il carico aerobico dei miei allenamenti, e ciò a spese di quel lavoro anaerobico che pure preferisco e che è improntato all'incremento della forza bruta e della cattiveria d'animo. Oggi pertanto, poco prima di pranzo, sono andato a nuotare.
Nuotare, per chi ancora non lo sapesse, è un'attività molto ripetitiva: si va avanti e indietro una cinquantina di volte per una piscina, proprio come degli imbecilli persi in un bicchier d'acqua, e quando si esce dalla vasca si ha come l'impressione di essere stati rapinati delle proprie forze e della voglia di vivere1 . Chiunque abbia avuto la pessima idea di dedicarsi a uno sport del genere, anche solo occasionalmente, saprà benissimo che appena asciugati, fonati e rivestiti, l'unica cosa da fare è cercare un chiosco o un capannello dove in qualche modo rifocillarsi e maledire ciascuno dei minuti precedenti passati a mollo. Voglioso di ramen, ho quindi deciso di fermarmi da Koya.
Koya è un ristorante decisamente popolare, a tre passi da un negozio dove vendono il letame per l'orto e i fogli per il laminatore termico, e dirimpetto al McDonald's Drive Through del quartiere. Fuori dal locale c'è sempre un certo odore di merda chimica, di Sebach per intendersi, specialmente nelle giornate calde d'estate come questa. Io e mia moglie siamo clienti abituali, e un paio di volte al mese – quasi sempre di venerdì, verso le nove e quaranta – andiamo a ordinare una scodella di tan- tan-men2 e dieci ravioli fritti senza nemmeno guardare il menu. Come una quantità di ristoranti giapponesi, anche Koya sta in quel limbo per cui è difficile capire se è semplicemente un ristorante estremamente standard, oppure una filiale di qualche grande catena. Il nome vuol dire rimessa, o capannello, e a quanto pare la struttura originaria è quella di una vecchia fabbrica di salsa di soia ormai fuori uso. Quale che sia la verità storica dietro a questo refettorio, la mia impressione è sempre la solita, ovvero che tutto sia troppo piccino e che il legno dei tavoli, delle seggiole e dei pilastri portanti sia assolutamente finto e di bassa qualità.
Ogni volta che entriamo l'aria condizionata spara fortissimo e Juri si mette una felpa dell'Adidas contraffatta, con il logo giallo e una macchia sospetta: la porta sempre con sé, perché col ramen alla fine ci si smerda sempre e lordare una maglia a modino sarebbe un peccato.
Siccome questo ramenaio ha un buon seguito di appassionati – lavoratori delle fabbriche qui intorno, tutti con la stessa tuta da lavoro e le stesse mani nere, coppie giovanissime di amici o di amanti che non hanno trovato posto da McDonald's e famiglie essenzialmente tutte uguali3 – il più delle volte c'è da mettersi in lista e aspettare vicino al cesso. Juri è contenta di dover temporeggiare, perché ha una vescica piccina piccina che la costringe a pisciare ogni venti minuti, e questa situazione le permette di sistemare la questione urinaria senza di fatto interrompere nulla di significativo o rischiare di trovarsi di fronte a una scodella già servita e magari un po' fredda. Il problema però è che Juri scrive sempre il mio, di nome, sulla lista d'attesa, e i camerieri giapponesi ogni volta si fanno prendere dal panico, perché La Sfrocchia in katakana diventa una cosa come rasufurookya, e nessuno se la sente di sbagliare a dirlo. Nell'intervallo di tempo che serve a mia moglie per la pisciagione io guardo sempre se in cucina c'è la cameriera brutta di muso ma bea de buso, perché qui in Giappone c'è proprio una carenza strutturale di fica e ogni occasione è buona per trovare del materiale di qualità per le fantasie cui ci si abbandona prima di addormentarsi. Se c'è, appena Juri torna a sedere dal suo viaggio all'orinatoio, io glielo dico e insieme facciamo dei garbati apprezzamenti sulle puppe e sul culo di questa simpatica portatrice di scodelle.
Una volta seduti e messe le borse e i cappotti nel cesto per le borse e i cappotti ordiniamo il solito, ovvero tan-tan-men ai sette allarmi con gli spaghi misura grossa e cotti al minimo, un onsentamago4 per me e cipolle verdi extra per Juri. Se abbiamo abbastanza punti sulla tessera fedeltà, anche i dieci ravioli fritti di cui parlavo poco fa, altrimenti no perché siamo poveri. Mentre aspettiamo io prendo sempre cinque o sei mandate di alghe fumanti al peperoncino: a) perché sono gratis, b) perché mi piace sudare ma soprattutto c) perché non riesco a stare a tavola senza far niente: meglio quindi mangiare qualcosa, anche se piccante oltre la soglia del dolore, che iniziare a disegnare cazzi sul tavolo con le chiavi della macchina. Dopo qualche minuto, indipendentemente dal modo in cui decido di impiegare il mio tempo, arrivano le portate principali: a seconda del cuoco di turno la cottura degli spaghi è più o meno soddisfacente, e la base del brodo è sempre un po' diversa. Tutto sommato però non ci si può lamentare.
Questa, in nuce, la mia esperienza abituale da Koya. Oggi, però, sono andato da Koya a pranzo, da solo.
In questi anni di clientela abituale io e Juri ci siamo sempre chiesti se fosse possibile deviare dal nostro ordine standard e azzardarsi a richiedere variazioni straordinarie sul menu. Juri però si fa sempre un monte di riserve, quando si tratta di chiedere le cose alla gente che lavora, ed io so che in questi casi, con il mio giapponese da immigrato schifoso e infame, mia moglie è sempre pronta a prendermi in giro. Per cui, nonostante le numerosissime occasioni che ci si sono presentate per trasgredire alla regola, abbiamo sempre finito col mangiare sempre esattamente le stesse cose. Ma questa volta, data la situazione straordinaria – e per l'orario, e per il fatto di essere da solo – mi sono messo subito a sedere – a pranzo non c'è la fila, specie se si pranza alle tre e un quarto – ho dato un'occhiata al menu – anche il menu è diverso, a pranzo – e mi sono deciso per un risino, cinque ravioli e una scodella di ramen in brodo di ossa di porco ma con gli spaghi grossi, che a dire il vero è un po' un'eresia, perché gli spaghi grossi vanno bene nel tan-tan-men, ma non col brodo alla maniera di Hakata. A dire il vero è proprio una mostruosità, come ordinare le tagliatelle aglio olio e peperoncino, e sono sicuro di aver fatto la figura del mentecatto. La cameriera pertanto mi ha guardato male, forse malissimo. Con l'aria di chi ormai ha visto tutto mi ha però detto va bene, si può fare: e dopo qualche minuto le mie pietanze sono arrivate. Mentre aspettavo, non avendo nessuno con cui parlare, ho mangiato il doppio della razione normale di alghe al peperoncino e ho rimpianto tantissimo di aver lasciato il telefono in macchina. Da Koya è tutto talmente normale che se non c'è la cameriera in forma non c'è nemmeno nulla da guardare. La porchetta di guarnizione purtroppo era un po' tiepida, ma il menma5 era passabile e tutto il resto era proprio come me lo aspettavo.
Quando sono tornato a casa ho detto a Juri che volendo si possono prendere anche i ramen classici con gli spaghi grossi, e lei mi è parsa contenta: poi ci siamo messi a fare le nostre cose aspettando il tifone di questa notte, che probabilmente spazzerà via un paio di quartieri della nostra città.